Intervista ad Antonio Ingroia: “La politica ha bisogno di chiarezza”

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Gli anni in magistratura, il rapporto con Falcone e Borsellino, l’impegno civile e politico, la Sicilia, la riforma della Costituzione firmata Renzi-Boschi, il referendum costituzionale. Antonio Ingroia ne ha parlato in una lunga intervista al sito cittadinicomuni.it. Di seguito il testo:

di Valerio Musumeci

La stanza è ampia e profumata, segno inequivocabile che qui non si fuma. Il caffè che mescolo è un’arma a doppio taglio: non sono ancora le nove e quindi ci sta, ma se dopo non posso accendere l’intervista rischia di venire male. Da una porta beige una segretaria si affaccia e vedendomi pensieroso mi invita a passare in un altro ambiente: «Qui può fumare – dice aprendo una finestra – il dottor Ingroia ha smesso ma è abbastanza tollerante. Certo non possiamo esagerare, è comunque un ufficio».

Mi trovo a Palermo presso la sede di Sicilia e-Servizi, la società informatica della Regione Siciliana di cui l’ex magistrato più famoso d’Italia – più famoso dello stesso Di Pietro, ad un certo punto della sua storia – è amministratore unico dal 2014. Nel 2013 il presidente Crocetta l’aveva cooptato come commissario liquidatore, salvo preferire poi il salvataggio della partecipata. Da qui si gestiscono i comparti dell’amministrazione pubblica regionale connessi alla rete: praticamente tutti, dai siti istituzionali all’anagrafe, dalle banche dati dei tribunali ai ticket sanitari online. «Anche il 118 dipende da noi – dice ancora la signora – Il sistema è informatizzato e quindi fa capo a questa società».

Lui arriva qualche minuto dopo, quando la sigaretta è finita e le chiacchiere con la segretaria virano sul convenzionale, il tempo piovoso e il Monte Pellegrino che domina Palermo. Non è diverso da tre anni fa, quando si candidò presidente del Consiglio per la coalizione di sinistra Rivoluzione Civile: stesso sguardo intelligente, stessi occhi curiosi sopra la barba sale e pepe. Ci accomodiamo nel suo studio e inizia la conversazione.

Dottor Ingroia, lei è un uomo che ha avuto molte anime: magistrato, politico, giornalista, dirigente pubblico, avvocato. Come si definirebbe attualmente?

 Mi definirei un cittadino che ha compiuto la maggior parte del suo percorso umano nella magistratura e in un dato momento ha ritenuto conclusa quell’esperienza, credendo fosse meglio farsi da parte per far sì che il suo lavoro avesse le prospettive migliori per compiersi. Il senso più profondo di quel lavoro – la sua natura civile, direi – ho continuato ad esprimerlo con altre forme di impegno, all’ONU e poi anche in politica, con il tentativo di Rivoluzione Civile e adesso con il progetto Azione Civile.

Lei è stato per un certo periodo il magistrato più famoso d’Italia, sotto i riflettori dapprima per le inchieste che ha condotto – su tutte quella sulla trattativa Stato-mafia – e poi per questa scelta che rivendica di cercare altre strade. Scelta che non ha mancato di suscitare reazioni, anche molto dure.

 Questo è un problema antico che riguarda la magistratura e i suoi rapporti con il potere politico. Non sono stato il primo e non sarò l’ultimo magistrato ad avere battuto questi sentieri: la nostra terra ha una lunga tradizione di giudici che hanno lottato, spesso con conseguenze tragiche, per illuminare spazi oscuri della Storia italiana. Qui il discorso attiene particolarmente alla mafia e al suo sviluppo accanto e spesso dentro lo Stato, e quindi è chiaro che si tratta di una materia sensibile e che suscita diverse reazioni – diciamo così – diverse sensibilità. Abbiamo condotto un’azione necessaria, e sotto un certo aspetto era necessario suscitare un certo tipo di reazione da parte di coloro che nello Stato ne sono interessati. Per me non è mai stato un problema vivere questa condizione di osservato speciale, avere questi riflettori puntati addosso. Li ebbero in tanti, basti pensare a Falcone e Borsellino prima della fine, o a come vengono trattati ancora oggi molti colleghi nell’esercizio delle loro funzioni. E’ una componente del nostro lavoro, di quello che era il mio lavoro. Non possiamo farci impressionare, non possiamo dimenticare che rispondiamo ad un’esigenza che precede questo livello di discussione e di polemica, che è l’esigenza della verità. 

Lei ha citato Falcone e Borsellino. Per molte generazioni (anche per la mia) questi giudici sono circondati da un’aura mitica, sono degli eroi. Lei ha avuto occasione di lavorare con entrambi.

 Mi considero molto fortunato ad essere entrato in magistratura e avere avuto modo di collaborare con Falcone quando ero praticamente un ragazzino, e in seguito con Borsellino a Marsala. Erano uomini netti, con una predisposizione naturale a questo lavoro. Per un praticante del mestiere era tutto da scoprire, tutto da inquadrare nelle giuste logiche. Avere avuto l’occasione di farlo con due magistrati che pagarono nel modo più tragico il loro servizio alla Nazione è stata una fortuna e una responsabilità. La vocazione civica della magistratura in me e credo in molti colleghi formati anche indirettamente da quella stagione giudiziaria dipende fondamentalmente da loro. E non soltanto nella magistratura: un intero Paese ha riscoperto il significato di certe parole, non soltanto di mafia ma anche di legalità, di servizio, di spirito di sacrificio.

La Sicilia è stata recentemente meta di pellegrinaggio per la politica nazionale. Il premier Renzi ha firmato i patti per Catania, per Palermo e da ultimo per la Sicilia con il presidente Crocetta. Reputa che questo sia un segnale di interesse sincero per la nostra Regione o soltanto una premessa alle prossime elezioni?

 E’ un fatto contestuale, che va letto come tale e non deve impressionare, come anche non dev’essere respinto in maniera pregiudiziale. Nel rapporto con lo Stato centrale sono state perse delle occasioni: io ho un rapporto di stima personale con il presidente Crocetta, ma politicamente ho delle riserve su molte delle cose che sono state fatte in questi anni di governo regionale. In particolare Crocetta è espressione del Partito Democratico, e il Partito Democratico esprime un presidente del Consiglio la cui azione io iscrivo nettamente nel solco del berlusconismo, per il modo di relazionarsi con i cittadini, per l’uso dei mezzi di comunicazione, per i condizionamenti di un sistema di potere politico che conosciamo e nei confronti del quale, come dire, non possiamo farci troppe illusioni. Torno alla sua domanda precedente per dirle che io non mi sono mai sentito un politico nel senso stretto del termine, ma che uno dei compiti di Rivoluzione Civile nel progetto che ci eravamo posti – e che col senno di poi, possiamo dirlo, non poteva funzionare in così poco tempo – era proprio restituire ai cittadini un contatto con la politica in senso lato, ciò che oggi non riescono a fare i partiti che sarebbero convenzionalmente posti a sinistra, in specie il Partito Democratico. Che cosa si vuole fare? Qual è il riferimento primo del premier e del governo nella sua azione? Direi che non si tratta di un riferimento di sinistra, e dunque non dà luogo a politiche che siano coerenti con quella storia. Questo è poi ciò che determina un giudizio severo anche nei confronti del governo regionale.

A proposito di Renzi, lei è animatore del dibattito sul referendum costituzionale, per cui ha dato anche alle stampe un libro – “Dalla parte della Costituzione”, Imprimatur, con prefazione di Marco Travaglio – per spiegare la riforma e le ragioni del No. Dunque perché votare No?

 Perché esiste una lunga storia, costellata dai nomi di personaggi come Licio Gelli, Francesco Cossiga, Giulio Andreotti, Bettino Craxi, Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, che è in perfetta continuità con tutti loro, che mostra come vi sia un disegno etero diretto – senza troppo andare sulla dietrologia – da parte di poteri finanziari, massoneria e lobby varie per ridisegnare al ribasso le architetture istituzionali dei paesi europei e in particolare di quelli mediterranei. Si tratta di Paesi dove le Costituzioni – attraverso l’azione storica di avanguardie rivoluzionarie e partigiane – hanno un’impronta marcatamente orizzontale, mettono cioè il cittadino sullo stesso livello delle istituzioni e del potere dandogli gli strumenti teorici per controllarlo e dirigerlo, ragione per cui la prima riforma necessaria alla nostra Costituzione è che venga finalmente applicata. Viceversa, la riforma proposta da Renzi ristruttura lo stato in forma verticale e verticistica, ponendo le condizioni attraverso il combinato disposto con la legge elettorale perché il senso intimo della Costituzione, le istanze liberali, popolari e partigiane in essa contenute, siano depauperate consentendo a chi abbia un consenso assolutamente minoritario di diventare il nuovo dominus incontrastato della Nazione. Ciò prescinde dagli aggiustamenti di merito che sono stati fatti: la riforma per esempio è complicata e macchinosa, distante anche a livello formale dall’organicità che i costituenti avevano voluto darle.

Parisi ha proposto un’Assemblea Costituente per mettere mano alla Carta se il referendum non passasse.

 Per quanto Parisi mi sia politicamente distante la sua è una giusta proposta che meriterebbe di essere attenzionata. Provenire da storie politiche differenti non significa non potere lavorare in maniera unitaria alla Legge fondamentale dello Stato, fu così ai tempi della Costituente e avrebbe dovuto essere così anche oggi. Invece si è proceduto in maniera opposta, avocando al Governo il potere di proporre e disporre una riforma che va letta complessivamente, e che risponde puntualmente a quel disegno etero diretto che dicevo.

Queste sono le posizioni che tutto il fronte del No esprime, dai Cinque Stelle alla destra alla sinistra extraparlamentare. Non teme la frammentazione di questo campo in logiche strettamente politiche? Ognuno ha il suo comitato, ognuno ha i suoi referenti, non la si butta troppo in politica?

 Storicamente i referendum hanno sempre riunito le opposizioni, e non mi preoccuperei più di tanto del fatto che ci siano più comitati e che in effetti ognuno cerchi di portare acqua al suo mulino. C’è un mulino più grande che è il fronte del No, in cui ciascuno ha scelto la sua collocazione e noi come Azione Civile il comitato presieduto dal professor Alessandro Pace. Certo D’Alema ha fatto il suo comitato, ciascuno il proprio e per certi versi è naturale che avvenga così in un contesto referendario, quindi il rischio della frammentazione è previsto ma non è detto che debba essere nocivo per le sorti del No, anzi. Più persone hanno scelto di offrire il loro contributo alla battaglia politica. Io personalmente l’ho fatto anche con questo libro, dove cerco di tracciare il percorso che da certe premesse che ho descritto porta al dibattito odierno della riforma. Poi avranno il loro ruolo fondamentale i giornali, le televisioni, con tutto ciò che sappiamo del loro ruolo nelle vicende politiche di questo paese. Anche in questo Renzi mostra di aver ben assimilato la lezione di Berlusconi, e di essere sulla scia di una gestione del potere preoccupante e poco chiara.

Vorrei riportarla ancora sulla Sicilia, sulle prossime regionali e sulla sua esperienza politica. Considera quella strada conclusa o vorrebbe rimettersi in gioco?

 Io sono in gioco con Azione Civile, che è un movimento politico esistente, a vocazione nazionale e in piena attività. Certo, facciamo politica con tutte le difficoltà che comporta farla con un movimento neonato, con ridotte possibilità economiche – e per fare politica occorrono soldi – e in un contesto non semplice. Su una mia candidatura rifletterei bene, perché l’esperienza con Rivoluzione Civile è stata sì esaltante ma ha messo in luce come non sia possibile fare una campagna elettorale in due mesi senza prima aver costruito un tessuto politico preciso di riferimentoE noi siamo al lavoro su questo, in modo organizzato, continuo e capillare. La Sicilia ha bisogno a questo punto della sua storia di scelte chiare, di decisioni nette che tengano conto della sua specificità prima che dell’interesse politico e di partito. Per questo bisogna lavorare molto, per evitare che si ripetano gli errori che sono stati commessi negli ultimi anni.

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