Caso Manca, Ingroia al Corriere di Viterbo: “Confidiamo nell’Antimafia”

Antonio Ingroia ha rilasciato un’intervista al Corriere di Viterbo sul caso Manca, dopo la sentenza di primo grado emessa dal giudice di Viterbo, Silvia Mattei, al termine del processo per la morte di Attilio Manca. Sentenza che ha visto la condanna a cinque anni e quattro mesi di reclusione, oltre a 18 mila euro di multa, della sola Monica Mileti, la donna accusata di aver ceduto la dose di eroina che, nel 2004, avrebbe provocato a Viterbo la morte dell’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto.

VITERBO – “La mia fede incrollabile nella giustizia mi lascia sempre un barlume di speranza ma purtroppo, con l`estromissione della parte civile dal processo, la strada era stata tracciata”. La strada di cui parla l`ex magistrato Antonio Ingroia è quella che ha portato, mercoledì scorso al tribunale di Viterbo, alla condanna a 4 anni e 5 mesi di Monica Mileti, l`impiegata romana accusata di aver ceduto la dose letale di eroina ad Attilio Manca, l`urologo di Belcolle trovato morto nel febbraio 2004 nella sua casa di Viterbo. Per Ingroia, che in qualità di avvocato difende la famiglia Manca, è stata la mafia, o “è Stato la mafia” per citare il libro di Marco Travaglio, e non l`eroina, ad uccidere l`urologo originario di Barcellona Pozzo di Gotto, perché “colpevole” di aver operato a Marsiglia il boss della mafia Bernardo Provenzano, morto nel luglio scorso. Manca, è la tesi di In- groia e della famiglia del medico, sarebbe stato eliminato, con la complicità di apparati dello Stato (quelli che sarebbero scesi a patti con Cosa nostra), perché testimone scomodo. Di tutt`altro avviso la Procura di Viterbo che alla pista del delitto di mafia non ha mai creduto.

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L`estromissione della parte civile ha impedito che nel dibattimento venissero introdotti testi e testimonianze che avrebbero consentito al giudice di valutare i fatti in maniera diversa. Ricordo anche che signora Angela Manca, nobile donna che ha raccontato tante cose in tante sedi diverse, è stata liquidata al processo in un paio di minuti, con il procuratore, sempre presente a tutte le fasi del processo, che quel giorno neanche mise piede all`udienza.

Ma quali sono le prove che si sia trattato di un delitto di mafia?
Prove dirette e indirette, a cominciare dalle testimonianze rese da alcuni collaboratori di giustizia, l`ultimo dei quali, Giuseppe Campo, da me ascoltato il mese scorso, ha asserito di essere stato incaricato di sparare a Manca nel dicembre 2003 e poi di essere stato bloccato nel momento in cui si era optato per un`eliminazione più silenziosa a Viterbo. Di qui la messa in scena del suicidio attraverso la droga.

Testimonianze di pentiti. Tutte da dimostrare.
Ci sono anche prove tangibili: la posizione del cadavere, incompatibile con la tesi del suicidio, le impronte digitali del cugino di Manca che si incrociano con le testimonianze di altri collaboratori di giustizia. Le dichiarazioni dei genitori.

Che Manca avrebbe fatto uso di stupefacenti lo hanno detto diversi testimoni durante il processo.
Testimoni direttamente o indirettamente collegati con le persone sospettate di essere coinvolte in quello che per noi resta un omicidio. Per non parlare dell`assoluta inattendibilità scientifica dell`esame tricologico compiuto dal consulente di parte. Andava fatta una nuova perizia. Tutti questi elementi bastano e avanzano per dire, non che andasse fatto un altro processo, ma che questo processo non andava celebrato. Bisognava invece approfondire le indagini, cosa che la procura di Viterbo si è sempre rifiutata di fare.
Caso chiuso?
Per niente. Confidiamo nell`indagine aperta dal procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e dalla procura nazionale antimafia, dove sta arrivando Nino Di Matteo. Un magistrato che, con la sua esperienza e professionalità, per noi rappresenta una garanzia.

Massimiliano Conti

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